“Se non vedo… non crederò.”
(Gv. 20, 25)
Vedere e toccare. Sono esperienze originarie, fondamentali nella vita di ognuno di noi. Solo attraverso il vedere e il toccare, da che mondo è mondo, può passare per ciascuno di noi l’esperienza autentica, la conoscenza che non sia puramente formale, teorica o – come siamo abituati a dire oggi – “virtuale”. Il tempo dell’emergenza sanitaria attuale è proprio quello in cui ci è sottratta questa possibilità fondamentale, che costituisce la base di ogni autentica conoscenza: vedere e toccare, che implicano sempre vicinanza, esperienza diretta, coinvolgimento personale ed effettivo. Oggi tutto questo diventa rischioso, perché proprio nel vedere in modo ravvicinato o addirittura nel toccare può nascondersi l’insidia da cui dobbiamo cercare di difenderci.
Ogni volta che leggo questo testo penso sempre al destino di Tommaso. Un apostolo, un grande amico del Signore, il cui nome ebraico significa “il gemello”, a cui la tradizione cristiana fa risalire l’evangelizzazione della Persia e dell’India, il cui vissuto di fede sembra spesso ridotto ad una battuta infantile e semplicistica: “Sei come san Tommaso, che non ci crede se non ci mette il naso…”.
Ben di più è questo racconto che ci viene consegnato da Giovanni. Non tanto e non solo, probabilmente, il resoconto del passaggio da parte di un amico del Signore da un certo scetticismo ad una fede più vera e profonda, ma – in fondo – l’itinerario proposto come necessario ad ogni credente che si disponga a vivere la fede pasquale. Gli elementi ci sono tutti: l’incontro con la comunità, l’esperienza dei segni della comunione, la presenza del crocifisso risorto… e poi il vedere e il toccare, cioè il fare esperienza concreta (e non solo per sentito dire) di Gesù nella sua duplice identità di crocifisso e di risorto. Non semplicemente di un risorto sfuggevole, evanescente e glorioso, ma disincarnato. E non solo del cadavere di un morto, con ancora evidenti i segni delle torture subite. No. Un crocifisso-risorto, una persona vera, da cui non è più possibile scindere l’esperienza della croce (cioè della morte vissuta in nome del dono totale di sé) da quella della risurrezione, cioè della vita pienamente realizzata, restituita per sempre.
Questa è dunque l’esperienza della Pasqua cristiana: quella che non nega la drammaticità delle esigenze dell’amore autentico e quella che scorge il volto di Dio nell’amore donato, e da noi ricevuto in modo gratuito, di cui le ferite aperte sono testimonianza autentica, perenne e inequivocabile. Questo amore dev’essere necessariamente visto e toccato, altrimenti è inevitabile rimanere fuori per sempre dal “Regno di Dio”, cioè dall’esperienza fondamentale della vita cristiana, che è quella dell’incontro con l’azione di salvezza di Dio, cioè con Colui che è – da sempre e per sempre – essenzialmente e totalmente Dono incondizionato di Sé.
Vedere e toccare, se si desidera conoscere, sperimentare, incontrare, vivere. Come quell’altra volta, in quella notte, ricordata sapientemente nella Veglia Pasquale, in cui “Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare” e nel toccarli con incredulità e stupore “vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito e temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè” (Es. 14, 30-31)
Era un’altra Pasqua, ma anche quella avrebbe segnato l’inizio di una vita nuova.
Don Francesco.